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Marco Manzella espone a Siena

pubblicata domenica 2 giugno 2024
Marco Manzella espone a Siena Si Inaugura a Siena la mostra personale dell’artista livornese Marco Manzella (socio del Gruppo Labronico ). Titolo della mostra : TERRA E SPIRITO. L’esposizione vedrà una selezionata serie di opere realizzate per l’occasione .
Galleria SENSI ARTE, Via del Cavalletto, 4 (Via delle Terme).
Apertura 8 giugno 2024 - ore 18.00
La mostra sarà visitabile fino alla fine di luglio. Chi e’ Marco Manzella :Una figurazione ferma e sospesa, vitrea e pulita, assoluta di colori e di geometrie, rigorosamente prospettica, come quella di un Masaccio o di un Piero redivivo in forma e in anima moderna, dove la solennità del dogma sacro lasci il campo all’interrogativo contemporaneo, al disagio dissimulato sub specie aeternitatis. Nell’arte di Manzella, ogni cosa, ogni figura, ogni personaggio appare coronato di eternità. Come nelle antiche predelle rinascimentali la grandiosità della pala si stemperava nella corsività popolaresca del racconto, così Manzella predilige da sempre scene ordinarie, aneddoti di vita spicciola e borghese, soprattutto ginnica: bagnanti e atleti in piscina, giochi di bimbi, anonimi passanti, e – in questo recente ciclo di dipinti – donne assorte nella lettura d’un libro, o sedute, olimpiche e bellissime, a contemplar vette alpine, dopo aver guadagnato – chissà come, senza sforzo apparente – sommità inarrivabili. Tutto, però, risulta immobile e puro, radioso, come illuminato – o meglio, scolpito – da una claritas metafisica, da una lente filosofica. La consueta poetica del “fermo immagine”, del gesto a mezz’aria, séguita a caratterizzare l’arte di Manzella, che in quest’ultimo meraviglioso gruppo di tempere su tavola e di disegni, tanto delicati e pittorici, ci giunge ancora più estrema, sottile, intrigante, ambigua.

Manzella ricompone la realtà (e il suo deficit di perfezione) in una situazione di grazia, fissando per immagini una sorta di età dell’oro dell’umanità, sia pur non priva di un certo humour caricaturale. Nella congerie di troppa e scadente pittura oggi di moda – citazionista, passatista, iperrealista e via catalogando – la sua cifra personalissima documenta un unicum, una rara e mirabile eccezione di qualità e di cultura, capace di farci gustare i sapori perduti del grande mestiere della pittura e della finzione/funzione poetica dell’arte. In un’epoca refrattaria alla manualità, povera di abilità e prodiga invece di “bufale” spacciate per novità, l’opera di Manzella spicca per tutte le serissime virtù della tradizione da cavalletto: per lo studio accurato del soggetto, per la composizione perfetta, per la tavolozza ben raccordata e per le ombre sempre esatte.

L’altro tesoro che la pittura di Manzella ci porta alla coscienza è, come dicevamo, quello proprio dell’arte, della poesia: ovvero il suo essere finzione, gioco delle parti e convenzione fra chi guarda (lo spettatore) e chi è guardato (l’opera, e dietro ad essa, l’autore). Lo stesso etimo latino del termine “finzione” rimanda al gesto artistico per eccellenza: il fingere era l’atto con cui lo scultore creava le proprie immagini. La finzione dell’arte è simulazione (di una realtà ideale, desiderabile) e, per contro, dissimulazione (nascondimento) di ciò che è troppo reale. “L’uomo non può sopportare troppa realtà”, nota Eliot. La realtà della pittura è dichiarata e autorizzata; è vera perché noi siamo disposti, o pre-disposti, a considerarla tale. L’imago, l’immagine è per definizione immaginaria. La pittura non inganna e non spaccia il falso, bensì costruisce e palesa una realtà nuova, “altra”, un “altrove” più interessante rispetto a quella dell’esperienza, proprio come fa Manzella con questi suoi paesaggi ideali nitidi come edifici classici, abitati da un raffinato ésprit de géometrie, dove vediamo alberi dritti come pali, montagne e cieli che sanno di scenografie teatrali, acque terse come specchi. Del resto, secondo il pensiero neoplatonico, l’opus, l’opera d’arte è dotata di una doppia natura, di una ratio bifrons: è vera e falsa; falsa rispetto alla cosa naturale rappresentata, ma più vera di questa in rapporto alla verità della cosa che vive nella mente dell’artista. La fanciulla d’avorio mirabilmente modellata dall’artista Pigmalione aveva “una bellezza quale nessuna donna vivente potrebbe possedere”. Del resto, Pablo Picasso affermò che “la pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a sé stesso riguardo a ciò che ha visto”.

E anche Manzella non sfugge a questa regola. Egli costruisce un’artificiosità che è equilibrio fra sé e il mondo reale, un’artificiosità che è quindi visione intima.



Domenico Montalto
 



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